“Ti fidi di me?”

Quando si intraprende un processo di trasformazione, qualunque sia l’entità, è ormai universale la convinzione che uno dei principali ostacoli sia la ben nota resistenza al cambiamento.

Se però si entra nelle cause della resistenza, troppo spesso mi accorgo che il freno bloccante dei team con cui lavoro non è tanto la paura di uscire dalla zona di comfort della propria routine, quanto un altro tipo di paura, ben più subdolo e difficile da fronteggiare: la paura di come “i capi” giudicheranno ogni singola idea espressa dai membri del team, peggio ancora la paura di come le proprie parole verranno usate contro loro stessi quando si tratterà di trovare un capro espiatorio.

La disillusione di chi pensa “tanto nessuno ci ascolterà o terrà conto delle nostre idee per prendere decisioni”.

Ormai dovrei averci fatto l’abitudine ma, ogni volta che mi trovo in quest’impasse, soffro.

Soffro perché mi metto nei panni delle persone che, persa ogni motivazione, si limitano a eseguire operazioni talora illogiche, pur di non andare in conflitto con il capo.

Soffro perché chiedono a me, consulente, di spiegargli perché improvvisamente – dopo essere stati trattati come soprammobili per anni – viene chiesto loro di “accendere il cervello” e proporre idee. Dov’è la fregatura?, mi ripetono.

Soffro, infine, perché mi ritrovo a facilitare un team invocando una fiducia che chiaramente non c’è più, quanto meno verso “il sistema”, senza avere la certezza che quest’ulteriore apertura di credito venga poi ricompensata nei fatti – e non solo nelle buone intenzioni dichiarate dal management.

Fiducia.
Credo sia questo il nocciolo della questione.

Da un lato osservo manager che non manifestano fiducia nei propri collaboratori: li controllano, non di rado li mortificano in caso di errore, spesso li relegano ad una posizione di mera operatività e li escludono dalla condivisione delle informazioni chiave, magari non perdendo occasione di rimarcare la gerarchia dei ruoli e il diritto di parola che ne consegue – e se sono donne, poi, c’è probabilmente anche quell’atavica convinzione della superiorità maschile (ma soprassediamo, non è questo il tema).

Dall’altro incontro collaboratori che hanno perso la fiducia: appiattiti nel quieto vivere, hanno smesso di elemosinare informazioni, si sono creati dei meccanismi autonomi per poter lavorare meglio nel proprio microcosmo, e intanto accettano in silenzio gli strabismi organizzativi che vedono ma non fanno notare.

In Eccellenti senza scelta viene tratteggiato il percorso valoriale che porta alla fiducia, attraverso una sequenza di valori da radicare nell’organizzazione: libertà, uguaglianza, responsabilità personale, equità, apertura, trasparenza.

Lo trovo di una cristallinità quasi disarmante.

Radicare il valore della libertà, di pensiero e parola, significa creare un contesto in cui le persone si sentano libere di esprimere le proprie idee, anche se in dissenso con quelle del management, perché non saranno né giudicate né tanto meno penalizzate. Di più: si sentono considerate come Persone, con pari diritti e dignità, indipendentemente dal ruolo ricoperto nell’organizzazione.

A chi spetta il primo passo? Chiaramente al management, che non può pretendere fiducia e dedizione se non impara a dare fiducia e libertà.

Cercare le opinioni e le idee dei collaboratori, e dimostrare di tenerle in considerazione, potrebbe costituire un buon inizio per i più “arrugginiti”.

Ingaggiare un team per risolvere un problema o migliorare un processo, ecco il primo vero banco di prova, denso di insidie con cui confrontarsi consapevolmente, per sottrarvisi altrettanto consapevolmente. Dare un mandato avendo già la (propria) soluzione ben chiara in mente; giudicare le idee viziati dal (proprio) giudizio sulle persone; rigettare le idee che non sono orientate al (proprio) interesse, facendo prevalere la gerarchia: alcuni esempi di trappole che minano la propria credibilità.

Per chi è abituato a indicare la via, fornendo soluzioni o impartendo istruzioni, significa rimettere completamente in discussione il proprio stile di leadership. L’impegno richiesto non è da poco, ma sono convinta che i benefici non tarderanno a comparire.

E i collaboratori? Spettatori attenti e pronti a giudicare a loro volta, criticando ogni passo falso del manager? Nossignori. La fatica del cambiamento va condivisa e sostenuta reciprocamente. Invece di rimarcare i passi falsi (che ci saranno, garantito) dei manager, si apprezzino i piccoli segnali di cambiamento e se ne dia visibile riconoscimento. Ancor meglio, si imparino a dare feedback costruttivi all’interlocutore.

Fiducia genera fiducia. 

Sull’autore Melania Frattini

Appassionata di viaggi, cinema, libri. In piena riscoperta del mio amore per la scrittura.